15/10/2010
A Kabul passando per i Caraibi e Tirana
I nuovi tragici fatti afgani, che hanno portato il numero dei caduti italiani a 34 (una cifra ovviamente del tutto incompatibile con il mantenimento della pudica definizione missione di pace così cara ai media nazionali), costringono ad una riflessione e, forse, quando la situazione politica lo permetterà, ad un vero e proprio dibattito in Parlamento e nel Paese. Il diversivo bombe sì, bombe no si è infatti rivelato per quello che era, ovvero un goffo tentativo di oscurare i temi di fondo sottostanti.
Ad esempio quello del mutamento radicale avvenuto nella politica estera dellItalia ormai scivolata dal forse non brillante ma certamente costante e per noi proficuo equilibrismo tra le grandi opzioni (Europa, NATO) ed i nostri contesti geo-strategici (Mediterraneo, Medio Oriente, approvvigionamenti energetici, nonché i quadri di riferimento multilaterali) ad un nuovo equilibrismo tra piatto ossequio alla linea occidentale (meglio statunitense) del momento e afffarucci (affaroni?) bilaterali del genere di quelli stipulati nelle dacie e nelle tende beduine. Di più, mentre si evita qualunque attenzione pubblica sul fatto che ormai i militari italiani allestero hanno raggiunto la cifra record di 9 mila unità (di cui quasi 4 mila nel teatro afgano), come pure sullonere finanziario che questo comporta, non si affronta la questione della compatibilità di tale impegno con il dettato costituzionale sul ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e/o comunque di affermazione di presenza internazionale. Evidentemente la questione era e rimane superabile a due condizioni: la prima è il riferimento ad un mandato delle Nazioni Unite in quanto punto centrale della comunità internazionale, la seconda è il costante esperimento di iniziative diplomatiche ovviamente nei limiti e con i tempi possibili.
Viceversa in nessun momento della storia repubblicana la presenza diplomatica (e perfino la coerenza con gli impegni internazionali pacifici sottoscritti dallItalia) del nostro Paese ha raggiunto un livello di evanescenza tale da sfiorare linesistenza, o meglio linveramento definitivo del declassamento dellItalia da Paese medio a Paese minore, ininfluente e periferico. Ciò non è casuale, ma costituisce ormai una vera e propria linea politica testimoniata dalla dismissione del Ministero degli Esteri varata e gestita dal duo di comando della Farnesina (politico e amministrativo): dimezzamento delle strutture centrali, asfissia della rete diplomatico-consolare, assenza di progettualità e perfino di coordinamento, folklore mediatico dei temi messi al centro di unAmministrazione che tutti gli altri Paesi (sviluppati e non) considerano tanto più indispensabile con il quadro globalizzato, mentre da noi il rapporto tra strumento diplomatico e strumento militare è ormai di uno a cento .
Da questa Farnesina ridotta ad un call center planetario collegato a catastrofi naturali o a casi da Chi lha visto promanano tuttavia segnali preoccupanti di sopravvivenza. Naturalmente al negativo. Vediamone alcuni. Archiviato (per esaurimento dei termini legali di permanenza e non per la asserita prudenza amministrativa di fronte alle indagini giudiziarie) il caso dellAmbasciatore che forniva attestazioni di residenza a truffatori napoletan-globali), gli onori della cronaca sono passati allarea caraibica ove si propongono Consolati onorari ai figli e nipoti di mafiosi certificati, evidenziando i dubbi criteri di gestione della Farnesina che in una sorta di meritocrazia invertita sembrano discriminare i funzionari competenti ed onesti. Ma il trionfo più complessivo è quello nella sostanziale esclusione della diplomazia italiana dal nuovo servizio europeo: una sola sede Tirana è stata assegnata ad un diplomatico italiano (non Pechino, non Tokio, niente di minimamente significativo). Anzi aver duplicato (e potenzialmente sovrapposto) la nostra presenza in Albania (Ambasciatore italiano/italiano e italiano/europeo) prefigura un auto-gol ed anche una malaccorta utilizzazione di un nostro funzionario notoriamente apprezzatato a livello europeo.
Ma tantè, finché non si riaprirà una nuova fase politica contrassegnata dallattenzione per il contesto internazionale, si potrà soltanto assistere a piccole operazioni di cabotaggio e/o piuttosto di spoliazione in extremis.
Ad esempio quello del mutamento radicale avvenuto nella politica estera dellItalia ormai scivolata dal forse non brillante ma certamente costante e per noi proficuo equilibrismo tra le grandi opzioni (Europa, NATO) ed i nostri contesti geo-strategici (Mediterraneo, Medio Oriente, approvvigionamenti energetici, nonché i quadri di riferimento multilaterali) ad un nuovo equilibrismo tra piatto ossequio alla linea occidentale (meglio statunitense) del momento e afffarucci (affaroni?) bilaterali del genere di quelli stipulati nelle dacie e nelle tende beduine. Di più, mentre si evita qualunque attenzione pubblica sul fatto che ormai i militari italiani allestero hanno raggiunto la cifra record di 9 mila unità (di cui quasi 4 mila nel teatro afgano), come pure sullonere finanziario che questo comporta, non si affronta la questione della compatibilità di tale impegno con il dettato costituzionale sul ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e/o comunque di affermazione di presenza internazionale. Evidentemente la questione era e rimane superabile a due condizioni: la prima è il riferimento ad un mandato delle Nazioni Unite in quanto punto centrale della comunità internazionale, la seconda è il costante esperimento di iniziative diplomatiche ovviamente nei limiti e con i tempi possibili.
Viceversa in nessun momento della storia repubblicana la presenza diplomatica (e perfino la coerenza con gli impegni internazionali pacifici sottoscritti dallItalia) del nostro Paese ha raggiunto un livello di evanescenza tale da sfiorare linesistenza, o meglio linveramento definitivo del declassamento dellItalia da Paese medio a Paese minore, ininfluente e periferico. Ciò non è casuale, ma costituisce ormai una vera e propria linea politica testimoniata dalla dismissione del Ministero degli Esteri varata e gestita dal duo di comando della Farnesina (politico e amministrativo): dimezzamento delle strutture centrali, asfissia della rete diplomatico-consolare, assenza di progettualità e perfino di coordinamento, folklore mediatico dei temi messi al centro di unAmministrazione che tutti gli altri Paesi (sviluppati e non) considerano tanto più indispensabile con il quadro globalizzato, mentre da noi il rapporto tra strumento diplomatico e strumento militare è ormai di uno a cento .
Da questa Farnesina ridotta ad un call center planetario collegato a catastrofi naturali o a casi da Chi lha visto promanano tuttavia segnali preoccupanti di sopravvivenza. Naturalmente al negativo. Vediamone alcuni. Archiviato (per esaurimento dei termini legali di permanenza e non per la asserita prudenza amministrativa di fronte alle indagini giudiziarie) il caso dellAmbasciatore che forniva attestazioni di residenza a truffatori napoletan-globali), gli onori della cronaca sono passati allarea caraibica ove si propongono Consolati onorari ai figli e nipoti di mafiosi certificati, evidenziando i dubbi criteri di gestione della Farnesina che in una sorta di meritocrazia invertita sembrano discriminare i funzionari competenti ed onesti. Ma il trionfo più complessivo è quello nella sostanziale esclusione della diplomazia italiana dal nuovo servizio europeo: una sola sede Tirana è stata assegnata ad un diplomatico italiano (non Pechino, non Tokio, niente di minimamente significativo). Anzi aver duplicato (e potenzialmente sovrapposto) la nostra presenza in Albania (Ambasciatore italiano/italiano e italiano/europeo) prefigura un auto-gol ed anche una malaccorta utilizzazione di un nostro funzionario notoriamente apprezzatato a livello europeo.
Ma tantè, finché non si riaprirà una nuova fase politica contrassegnata dallattenzione per il contesto internazionale, si potrà soltanto assistere a piccole operazioni di cabotaggio e/o piuttosto di spoliazione in extremis.
Di Il Cosmopolita il 15/10/2010 alle 00:00 | Non ci sono commenti
08/10/2010
Il processo di pace che non procede
Un senso di frustrazione prende i commentatori che sono chiamati a scrivere del processo di pace in Medio Oriente. Mai espressione diplomatica così diffusa processo è stata usata così a sproposito. Non manca lobiettivo, giusto e sacrosanto, della pace. Manca il dinamismo che conferisce sostanza e verità allespressione processo. Se non fosse lunga e arzigogolata, meglio sarebbe adoprare quella di tentativi in direzione di un processo.
Lennesimo tentativo in direzione di è stato lanciato dal Presidente USA che, approssimandosi la verifica di mid term e temendo di perdere in patria la popolarità di cui continua a godere fuori, si cimenta nel compito impossibile di mettere insieme israeliani e palestinesi in vista del comune obiettivo della pace, da raggiungere grazie alla formula dei due popoli - due stati. Il calendario è serrato, e pertanto il Segretario di Stato subito officia le riunioni fra le parti con le doverose strette di mano fra Netanyahu e Abu Mazen. Il clima pare propizio grazie alla decisione del Governo israeliano di sospendere temporaneamente la costruzione di alloggi in Cisgiordania. Le violenze naturalmente continuano, ma a bassa intensità e comunque senza episodi clamorosi che costringano le parti a reagire sul piano diplomatico.
Le reazioni sono favorevoli. Il Consiglio europeo adotta lennesima Dichiarazione sul Medio Oriente che saluta la ripresa delle trattative dirette e mette a disposizione le sue competenze leggi: finanze per assecondarle. A fronte dellimpegno che la porta ad essere il principale finanziatore dellAutorità Palestinese ed il principale partner dei paesi dellarea, lUE chiede di partecipare alle trattative direttamente e tramite il Quartetto con la coppia britannico laburista Ashton Blair. I commentatori si congratulano con Obama che cerca così di onorare il precoce Premio Nobel assegnatogli dai giurati di Oslo.
La pausa nella costruzione dei nuovi insediamenti, o nellallargamento degli esistenti, scade a fine settembre e Netanyahu non la proroga, come invece gli viene chiesto da più parti. I coloni che prima mostravano la faccia feroce ai soldati chiamati a fermarli, ora plaudono al Governo che consente loro di costruire nella loro terra. ONU, Stati Uniti, UE, Russia deplorano la decisione di Netanyahu, come se questa potesse sorprendere la comunità internazionale dopo che lo stesso aveva annunciato che non avrebbe accettato precondizioni alle trattative dirette. Nella conferenza stampa di Sderot, egli invita Abu Mazen alla coerenza. Niente precondizioni, la pace si basa sulla più semplice simmetria: Israele riconosce lo stato palestinese e i palestinesi riconoscono lo stato ebraico. Questo è semplice, giusto, corretto, urgente. Abu Mazen replica che la ripresa delle costruzioni può costringerlo a ritirarsi dalle trattative.
Si diceva di un conflitto che procede sia pure a bassa intensità. Le cifre riportate dalla ONG israeliana Betzelem indicano in 6.371 i palestinesi uccisi negli ultimi anni a fronte di 1.083 (o 1.178) israeliani uccisi. Su popolazioni tutto sommato esigue sono numeri terribilmente alti. Pourquoi lEurope nest pas là? titola Le Monde che nota lincertezza della politica estera comune divisa fra iniziative UE e iniziative nazionali come quella di Sarkozy, che lo stesso giornale definisce improbabile, di rilanciare lUnione per il Mediterraneo come chiave della soluzione. E invece lEuropa può giocare un ruolo. Ponendosi nel solco della sua tradizionale politica in Medio Oriente, dia spessore allazione esterna che essa teorizza da tempo e di cui ora ha gli strumenti grazie al Trattato di Lisbona. Lanci nel Mediterraneo la più grande operazione di politica estera e di sicurezza: proponga alle parti lo scudo della sicurezza europea insieme alla cosiddetta prospettiva europea. Un mix virtuoso di forza politico militare e di integrazione economica che contempli a tempo una qualche forma di adesione.
Lennesimo tentativo in direzione di è stato lanciato dal Presidente USA che, approssimandosi la verifica di mid term e temendo di perdere in patria la popolarità di cui continua a godere fuori, si cimenta nel compito impossibile di mettere insieme israeliani e palestinesi in vista del comune obiettivo della pace, da raggiungere grazie alla formula dei due popoli - due stati. Il calendario è serrato, e pertanto il Segretario di Stato subito officia le riunioni fra le parti con le doverose strette di mano fra Netanyahu e Abu Mazen. Il clima pare propizio grazie alla decisione del Governo israeliano di sospendere temporaneamente la costruzione di alloggi in Cisgiordania. Le violenze naturalmente continuano, ma a bassa intensità e comunque senza episodi clamorosi che costringano le parti a reagire sul piano diplomatico.
Le reazioni sono favorevoli. Il Consiglio europeo adotta lennesima Dichiarazione sul Medio Oriente che saluta la ripresa delle trattative dirette e mette a disposizione le sue competenze leggi: finanze per assecondarle. A fronte dellimpegno che la porta ad essere il principale finanziatore dellAutorità Palestinese ed il principale partner dei paesi dellarea, lUE chiede di partecipare alle trattative direttamente e tramite il Quartetto con la coppia britannico laburista Ashton Blair. I commentatori si congratulano con Obama che cerca così di onorare il precoce Premio Nobel assegnatogli dai giurati di Oslo.
La pausa nella costruzione dei nuovi insediamenti, o nellallargamento degli esistenti, scade a fine settembre e Netanyahu non la proroga, come invece gli viene chiesto da più parti. I coloni che prima mostravano la faccia feroce ai soldati chiamati a fermarli, ora plaudono al Governo che consente loro di costruire nella loro terra. ONU, Stati Uniti, UE, Russia deplorano la decisione di Netanyahu, come se questa potesse sorprendere la comunità internazionale dopo che lo stesso aveva annunciato che non avrebbe accettato precondizioni alle trattative dirette. Nella conferenza stampa di Sderot, egli invita Abu Mazen alla coerenza. Niente precondizioni, la pace si basa sulla più semplice simmetria: Israele riconosce lo stato palestinese e i palestinesi riconoscono lo stato ebraico. Questo è semplice, giusto, corretto, urgente. Abu Mazen replica che la ripresa delle costruzioni può costringerlo a ritirarsi dalle trattative.
Si diceva di un conflitto che procede sia pure a bassa intensità. Le cifre riportate dalla ONG israeliana Betzelem indicano in 6.371 i palestinesi uccisi negli ultimi anni a fronte di 1.083 (o 1.178) israeliani uccisi. Su popolazioni tutto sommato esigue sono numeri terribilmente alti. Pourquoi lEurope nest pas là? titola Le Monde che nota lincertezza della politica estera comune divisa fra iniziative UE e iniziative nazionali come quella di Sarkozy, che lo stesso giornale definisce improbabile, di rilanciare lUnione per il Mediterraneo come chiave della soluzione. E invece lEuropa può giocare un ruolo. Ponendosi nel solco della sua tradizionale politica in Medio Oriente, dia spessore allazione esterna che essa teorizza da tempo e di cui ora ha gli strumenti grazie al Trattato di Lisbona. Lanci nel Mediterraneo la più grande operazione di politica estera e di sicurezza: proponga alle parti lo scudo della sicurezza europea insieme alla cosiddetta prospettiva europea. Un mix virtuoso di forza politico militare e di integrazione economica che contempli a tempo una qualche forma di adesione.
Di Il Cosmopolita il 08/10/2010 alle 00:00 | Non ci sono commenti
08/10/2010
Respinti e mitragliati
Fa un certo effetto, a dir poco, ricordare la dichiarazione di qualche giorno fa del ministro Maroni, secondo il quale il peschereccio siciliano mitragliato e inseguito giorni fa nel canale di Sicilia è stato vittima di un malaugurato incidente essendo stato scambiato per un barcone di clandestini. Al di là della credibilità o meno di questa affermazione - se cioè si sia trattato davvero di un errore dei libici o piuttosto di unostentazione di sicurezza in unarea da loro considerata zona economica esclusiva- dalla frase del ministro non si può non dedurre che i migranti irregolari (attenzione: non necessariamente clandestini) vengono in effetti regolarmente presi a colpi di cannone quando navigano in quelle acque.
Da alcuni anni, purtroppo, in quel mare accadono cose terribili. Molti migranti vi sono annegati o morti di sete e di stenti durante la traversata, altri sono riusciti a raggiungere rocambolescamente la costa, altri ancora sono stati salvati dalle nostre navi. Fino a non molto tempo fa, il principio che unimbarcazione in difficoltà dovesse essere comunque soccorsa e condotta sulla terraferma non era messo in discussione. Poi sono successe alcune cose: laccordo di amicizia e cooperazione con la Libia, le liti con Malta sulle zone marittime di soccorso, la chiusura del Centro di accoglienza di Lampedusa. E adesso che cosa succede in quelle acque? Come vengono dissuasi i migranti africani dallavvicinarsi alle nostre coste? Che fine fanno i respinti? Sono domande alle quali è difficile dare una risposta univoca ma dietro a ciascuna di esse si intuiscono e a volte si documentano tragedie umane immense.
Quanto allepisodio del peschereccio mitragliato, siamo riusciti in unimpresa che ha pochi precedenti nella storia delle relazioni internazionali: un attacco armato effettuato con mezzi militari e personale appena forniti dal paese aggredito (lItalia) a quello aggressore. E per giunta a pochi giorni dalla pittoresca visita del colonnello Gheddafi a Roma (con tanto di amazzoni, caroselli equestri e platee di ragazze italiane folgorate, dietro pagamento, dal verbo del leader della Giamahiria). Una circostanza che avrà fatto sorridere molti, a Bruxelles e in altre capitali europee e che induce però a chiedersi molto seriamente che cosa prevedano le clausole non pubbliche dellaccordo italo-libico e, soprattutto, se nel negoziarlo non si sarebbe dovuto tutelare di più non solo lincolumità dei pescatori siciliani ma anche i diritti umani dei molti diseredati che si imbarcano dallAfrica verso lEuropa In realtà, laccordo bilaterale cui si è da poco celebrato il secondo anniversario ha soltanto rivitalizzato accordi pre-esistenti, del 2000 e del 2007, in materia di contrasto allimmigrazione clandestina, che erano di fatto rimasti disapplicati fino alla prima metà del 2009.
Accordi tutti negoziati in modo opaco, i cui testi anche dopo la firma, furono tenuti per mesi nascosti al Parlamento e allopinione pubblica. E comunque, lo ripetiamo, accordi che potevano e dovevano essere negoziati meglio. E cioè: pure ammettendo che la parte libica dovesse essere, per così dire, incentivata a controllare meglio le proprie coste e i propri confini, qualche paletto in più lo si doveva mettere. Non arriviamo a pensare saremmo degli utopisti! alle clausole di tutela dei diritti umani presenti negli accordi tra Unione Europea e paesi terzi, che prevedono anche la sospensione dellaccordo in caso di violazioni gravi e stabiliscono meccanismi di monitoraggio e dialogo politico in materia. Ma, almeno, anziché limitarsi ad un inconsistente appello ai principi, si doveva spingere per un calendario verso ladesione della Libia alla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati; e nel frattempo pretendere ragionevoli garanzie per loperato delle agenzie internazionali come lAlto Commissariato per i Rifugiati e lOrganizzazione Internazionale delle Migrazioni. Si dovevano anche mettere in campo aiuti finanziari destinati alla tutela dei diritti dei richiedenti asilo: sarebbero comunque costati una piccola frazione dei famosi 5 miliardi promessi, o della rete di controllo satellitare delle frontiere, anchessa prevista nellaccordo, o dello stesso Centro di Lampedusa da poco smantellato. E, infine, si doveva aumentare lattività di contrasto nei confronti degli organizzatori e dei mercanti di clandestini, italiani o stranieri che fossero.
Più in generale, era davvero un interesse così forte quello di fermare a tutti i costi i migranti (a proposito, meno del 15% dei clandestini presenti in Italia è arrivato via mare) da passare sopra a uno dei capisaldi del diritto internazionale come la convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951? Se, negli ultimi anni, a circa la metà dei migranti africani arrivati in Italia via mare è stato riconosciuto il diritto di asilo o di protezione umanitaria, non era difficile prevedere che limitarsi a dare carta bianca alla Libia qualche problema ce lavrebbe creato. Esigenze della realpolitik? Al contrario, proprio limportanza dei rapporti economici bilaterali (a cominciare dagli investimenti libici in Italia), avrebbero dovuto, a nostro giudizio, in una visione integrata di governance globale, indurci a pretendere dai libici impegni non di facciata sul tema dei diritti umani. E invece, mentre i migranti vengono respinti verso un triste destino di morte o di prigionia, noi siamo al contempo ridicolizzati (da Gheddafi), criticati (dagli organismi internazionali) e mitragliati (dalle nostre stesse motovedette): difficile vedere in tutto questo qualcosa che assomigli vagamente ai nostri valori costituzionali o al nostro stesso interesse nazionale.
Da alcuni anni, purtroppo, in quel mare accadono cose terribili. Molti migranti vi sono annegati o morti di sete e di stenti durante la traversata, altri sono riusciti a raggiungere rocambolescamente la costa, altri ancora sono stati salvati dalle nostre navi. Fino a non molto tempo fa, il principio che unimbarcazione in difficoltà dovesse essere comunque soccorsa e condotta sulla terraferma non era messo in discussione. Poi sono successe alcune cose: laccordo di amicizia e cooperazione con la Libia, le liti con Malta sulle zone marittime di soccorso, la chiusura del Centro di accoglienza di Lampedusa. E adesso che cosa succede in quelle acque? Come vengono dissuasi i migranti africani dallavvicinarsi alle nostre coste? Che fine fanno i respinti? Sono domande alle quali è difficile dare una risposta univoca ma dietro a ciascuna di esse si intuiscono e a volte si documentano tragedie umane immense.
Quanto allepisodio del peschereccio mitragliato, siamo riusciti in unimpresa che ha pochi precedenti nella storia delle relazioni internazionali: un attacco armato effettuato con mezzi militari e personale appena forniti dal paese aggredito (lItalia) a quello aggressore. E per giunta a pochi giorni dalla pittoresca visita del colonnello Gheddafi a Roma (con tanto di amazzoni, caroselli equestri e platee di ragazze italiane folgorate, dietro pagamento, dal verbo del leader della Giamahiria). Una circostanza che avrà fatto sorridere molti, a Bruxelles e in altre capitali europee e che induce però a chiedersi molto seriamente che cosa prevedano le clausole non pubbliche dellaccordo italo-libico e, soprattutto, se nel negoziarlo non si sarebbe dovuto tutelare di più non solo lincolumità dei pescatori siciliani ma anche i diritti umani dei molti diseredati che si imbarcano dallAfrica verso lEuropa In realtà, laccordo bilaterale cui si è da poco celebrato il secondo anniversario ha soltanto rivitalizzato accordi pre-esistenti, del 2000 e del 2007, in materia di contrasto allimmigrazione clandestina, che erano di fatto rimasti disapplicati fino alla prima metà del 2009.
Accordi tutti negoziati in modo opaco, i cui testi anche dopo la firma, furono tenuti per mesi nascosti al Parlamento e allopinione pubblica. E comunque, lo ripetiamo, accordi che potevano e dovevano essere negoziati meglio. E cioè: pure ammettendo che la parte libica dovesse essere, per così dire, incentivata a controllare meglio le proprie coste e i propri confini, qualche paletto in più lo si doveva mettere. Non arriviamo a pensare saremmo degli utopisti! alle clausole di tutela dei diritti umani presenti negli accordi tra Unione Europea e paesi terzi, che prevedono anche la sospensione dellaccordo in caso di violazioni gravi e stabiliscono meccanismi di monitoraggio e dialogo politico in materia. Ma, almeno, anziché limitarsi ad un inconsistente appello ai principi, si doveva spingere per un calendario verso ladesione della Libia alla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati; e nel frattempo pretendere ragionevoli garanzie per loperato delle agenzie internazionali come lAlto Commissariato per i Rifugiati e lOrganizzazione Internazionale delle Migrazioni. Si dovevano anche mettere in campo aiuti finanziari destinati alla tutela dei diritti dei richiedenti asilo: sarebbero comunque costati una piccola frazione dei famosi 5 miliardi promessi, o della rete di controllo satellitare delle frontiere, anchessa prevista nellaccordo, o dello stesso Centro di Lampedusa da poco smantellato. E, infine, si doveva aumentare lattività di contrasto nei confronti degli organizzatori e dei mercanti di clandestini, italiani o stranieri che fossero.
Più in generale, era davvero un interesse così forte quello di fermare a tutti i costi i migranti (a proposito, meno del 15% dei clandestini presenti in Italia è arrivato via mare) da passare sopra a uno dei capisaldi del diritto internazionale come la convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951? Se, negli ultimi anni, a circa la metà dei migranti africani arrivati in Italia via mare è stato riconosciuto il diritto di asilo o di protezione umanitaria, non era difficile prevedere che limitarsi a dare carta bianca alla Libia qualche problema ce lavrebbe creato. Esigenze della realpolitik? Al contrario, proprio limportanza dei rapporti economici bilaterali (a cominciare dagli investimenti libici in Italia), avrebbero dovuto, a nostro giudizio, in una visione integrata di governance globale, indurci a pretendere dai libici impegni non di facciata sul tema dei diritti umani. E invece, mentre i migranti vengono respinti verso un triste destino di morte o di prigionia, noi siamo al contempo ridicolizzati (da Gheddafi), criticati (dagli organismi internazionali) e mitragliati (dalle nostre stesse motovedette): difficile vedere in tutto questo qualcosa che assomigli vagamente ai nostri valori costituzionali o al nostro stesso interesse nazionale.
Di Il Cosmopolita il 08/10/2010 alle 00:00 | Non ci sono commenti
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